La luna (W. Benjamin, "Infanzia berlinese intorno al millenovecento")
La luce che piove dalla luna non è destinata alla scena del nostro essere diurno. Il cerchio che essa indistintamente rischiara, sembra essere quello di una terra rivale o secondaria. Non è quella che la luna segue da satellite, ma quella a sua volta trasformata in satellite della luna. Il suo vasto petto, il cui respiro era il tempo, non si muove più; finalmente la creazione è tornata alle origini e può nuovamente indossare il velo vedovile che il giorno le aveva strappato. Questo mi faceva capire il pallido raggio che attraverso la persiana penetrava fino a me. Il mio sonno era inquieto; la luna lo sezionava con il suo andare e venire. Quando c'era lei nella camera e io mi svegliavo, ne venivo scacciato, perché sembrava che la stanza non volesse ospitare nessuno all'infuori di lei. La prima cosa su cui cadeva il mio sguardo erano le due catinelle color crema del lavamano. Di giorno non mi capitava mai di prestarvi attenzione. Ma alla luce lunare, la striscia blu che correva lungo la parte superiore mi turbava. Simulava una sorta di fettuccia che entrava e usciva da un tessuto. E in effetti: l'orlo delle catinelle era increspato come una gorgiera. Fra le due erano sistemate delle brocche panciute, fatte della stessa porcellana e ornate dello stesso motivo floreale. Quando scendevo dal letto, tintinnavano, e questo tintinnio, attraverso il ripiano di marmo, si trasmetteva alle vaschette e bacinelle della toeletta. Ma per quanto mi facesse piacere carpire un segno di vita - fosse anche solo l'eco della mia - all'atmosfera notturna, era però un segno insidioso che come un falso amico attendeva il momento di ingannarmi. Avveniva quando con la mano sollevavo la caraffa per versare acqua in un bicchiere. Il gorgogliare di quell'acqua, il rumore con cui deponevo prima la caraffa e poi il bicchiere - ogni cosa giungeva al mio orecchio sotto forma di ripetizione. Perché sembrava che il passato avesse già occupato tutti i luoghi di quella terra secondaria in cui ero rapito. Dovevo rassegnarmi all'idea. E quando poi mi accostavo al letto, era sempre con la paura di trovarci steso me stesso.
La paura svaniva del tutto solo quando sotto la schiena sentivo il materasso. Allora mi addormentavo. La luce della luna abbandonava a poco a poco la mia camera. E spesso era già immersa nell'oscurità quando mi risvegliavo una seconda o una terza volta. La mano era la prima a dover trovare il coraggio per affacciarsi oltre il fossato del sonno in cui aveva trovato riparo dal sogno. Quando poi il tremulo lumino da notte aveva placato lei e me, risultava che del mondo nulla più esisteva se non un unico, ostinato interrogativo. E questo era: perché mai esiste qualcosa nel mondo, perché esiste il mondo stesso? Con sbigottimento mi accorgevo che nel mondo niente poteva costringermi a pensare il mondo stesso. Il suo non-essere non mi sarebbe risultato in alcun modo più problematico del suo essere che sembrava ammiccare al non-essere. Quando la luna ancora splendeva, il mare e i suoi continenti non avevano molto in più del mio lavamano. Della mia stessa esistenza non era rimasto altro che il sedimento del suo abbandono.
(Traduzione di Enrico Ganni)
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