Autoritratti
In Giappone sei schiavo delle regole e della lingua.
Regole ferree, educazione rigida, lingua e leggi al limite del comprensibile.
In Giappone, se sei straniero, vivi bene, ma vivi anche cosi'.
Costantemente e leggermente cosciente di una forma di costrizione.
Io e il mio avvocato parliamo, mi sono appena scusato e inchinato per il ritardo, scambio di inchini perche' ovviamente lui si scusa del fatto che io mi scusi.
E poi si entra in ambasciata, Italiana, ed ecco che improvvisamente mi pare di aver attraversato uno specchio. Ci vuole un secondo. Un secondo netto.
Improvvisamente sono io quello che capisce come gira il vapore e la gente che ho davanti, la conosco bene.
Gente che smussa gli angoli, che aggira gli ostacoli, che se puo' parla in Italiano.
Ed e' davvero una sensazione incredibile, vedere il mio avvocato improvvisamente boccheggiare, pesce fuor d'acqua e io sentirmi liberato, ritrovarmi nell'oppressione che conosco, quella di casa mia, quella della rilassatezza e dell'egoismo umano, che fa a pugni con la moralita' locale.
Quella del poliziotto che mi dice yamme yamme. Degli ufficiali che mi chiamano per nome e parlano bypassando il mio legale, perche' e' piu' comodo cosi'. Ed e' giusto.
E quasi mi verrebbe da slacciarmi la cravatta e la cinta e rilassarmi.
Sotto la finestra da cui il poliziotto di cui sopra squadra una ragazza in pantaloncini troppo corti, squadra con un viso che non dovresti mai fare in pubblico. Non se non vuoi essere arrestato. Ma la legge qui e' la sua. E quindi rimane con la sua faccia da allupato a sbavare mentre la tizia in questione compila moduli.
E poi si esce.
La mia cervicale gia' si irrigidisce un poco.
Un paio di inchini e ognuno dalla propria parte.